Gian Marco Montesano
FABIO CAVALLUCCI
Comincia così, con un paradosso, la storia di Gian Marco Montesano: convinto che la pittura sia finita, eppure pervicacemente pittore. Ma la sua posizione non è quella di chi fa di tutto per soccorrerla, per riportarla all'antico splendore. La posizione di Montesano verso la pittura è più complessa, eccentrica e, allo stesso tempo, chiarissima. Disilluso, cinico, freddo, la utilizza non per la sua bellezza o per il suo potere evocativo. Ormai cadavere, la disseziona e la analizza. Ne ripercorre le classificazioni: il ritratto, il paesaggio, la natura morta, le scene di genere. Nel modo apparantemente più banale: semplicemente dipingendo. Anche "male", talvolta, tanto per chiarire che non è la qualità artigianale che lo interessa. Uomo di un'altra generazione, ma più giovane di molti giovani pittori, sa che la pittura non può oggi che raccontare se stessa, come oggetto di autopsia sul tavolo di anatomia patologica.
Se la pittura è morta, è morta anche la Storia. La caduta delle ideologie e dei valori porta nel baratro della dimenticanza anche la trama degli eventi, quella concatenazione di cause ed effetti a cui tutti, umanisticamente, ci sentiamo ancora un pò aggrappati, e che la pittura ha rappresentato dall'avvento della borghesia europea alle avanguardie, anch'esse inesorabilmente borghesi.
Ma il gioco di Montesano è ancora più sottile.
La malinconia è un prodotto umanistico e Montesano la introduce con inganno. Gli serve per ricreare un gusto popolare, mentre lui popolare non lo è affatto. La pittura finisce, la Storia anche, restano solo le immagini che ci possono toccare perchè appartenenti a un sentire collettivo. Galleggiano, sperdute tra le altre, provocando un effetto di nostalgia (...)
Il suo è un esame freddo, distaccato. Per questo rischia di essere accusato da destra e da sinistra: visto come un rivoluzionario, che usa la pittura per minare il sistema dall'interno, oppure come un revisionista, che avvalla col suo gioco il gioco di tanti inutili pittori. Montesano sa che il bene e il male, il bello e il brutto, se ne sono andati con il secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Fascismo, nazismo, comunismo, sono sullo stesso piano, per quanto possa non piacere ai tanti ancora legati alle ideologie che, pure quelle, sono scivolate via insieme ai ricordi dei loro misfatti.
Oggi il primato va alla tecnologia, che assume in sè ciò che una volta era il lavoro specializzato, l'artigianato fatto con qualità. E la tecnologia non contiene giudizi, perchè non supporta punti di vista. Allora l'artista, se ancora lo si vuole chiamare tale, si fa macchina esso stesso, servomeccanismo di una generale caduta dell'io. Warhol l'aveva già capito: "Il suo desiderio ultimo era quello di diventare macchina. Le macchine sono perfette perchè non si oppongono a nulla, non criticano nulla", dice Montesano in un'intervista. Dunque la pittura è solo uno strumento, il più immediato, perchè ormai inserito quasi nel codice genetico dell'uomo, per raccontare questo cambiamento epocale.
Potrebbe sembrare un gioco di grande ambiguità. Di un cinismo smaliziato e perverso, che si prende beffa dei sentimenti e li travia. Ma al di là delle apparenze, il tema di Montesano non è la pittura. E nemmeno la storia. Il tema è ancora più vasto e generale. È quello centrale, sopratutto di questi tempi, da Hirst a Cattelan: la morte. La morte di Hirst è oggettiva, presentata tale e quale in una dissezione reale. La morte di Cattelan è tragicomica, coperta da un velo di ironia che sembra ancora consentirci di continuare a vivere. La morte di Montesano è l'assenza. La vita è stata risucchiata dalle immagini, divenute spettri opachi, ombre della memoria. Grande amico di Baudrillard, Montesano sa che la realtà è sparita, sostituita dai suoi simulacri. E allora cosa meglio della pittura, simulacro dei simulacri, può servire a raccontarla ?
Montesano sa troppo bene che ormai la storia dell'arte vale poco: un caterpillar ha spianato le differenze di valori,ha abbassato la Gioconda alla pubblicità della Ferrarelle e ha elevato la pubblicità ad arte con Andy Warhol. Più che alla pittura olandese, i suoi fiori si riferiscono a Sanremo. "Grazie dei fiori" è infatti il titolo della serie. Una canzone di Nilla Pizzi vale quanto un saggio critico per descrivere questa esplicita caduta dei valori, in una atmosfera di teatro da avanspettacolo, con un refrein che continua a suonare (...)
La scena come luogo del delitto. Cosa c'è di più mortifero del teatro, dove tutto ciò che accade è falso, prodotto da una luce direzionata o da una macchina per il fumo ? Montesano è cresciuto facendo la regia per Dodò d'Amburgo, prima di diventare transfuga in odore di terrorismo, filosofo rivoluzionario amico di Deleuze, Guattari, Baudrillard e Toni Negri, e infine artista, più per trovarsi un ruolo che per vocazione, più per gioco che per missione. Ma la dimensione scenica non l'ha mai abbandonata e oltre a continuare impunemente a scrivere e a dirigere pièce teatrali, il teatro affiora anche nei lavori artistici. Teatralità è infatti il segno di questi grandi fiori, e come ogni dramma non è mai vero (...)
Prendiamo i fiori, ultima produzione dell'artista. Fiori giganti, ipercresciuti, bulimici. Maestosi, rigogliosi, ma in realtà immagini troppo belle di una flora senza linfa. Fiori del male, che la società dello spettacolo ha fatto crescere a dismisura, ma che contengono il veleno della loro morte.
Quello che Montesano commette è dunque un delitto, è lui che ha ucciso la pittura. Dietro le mentite spoglie del soccorritore, infligge l'ultimo colpo alla vecchia signora. Sembra amarla, la pittura, sembra difenderla, ma in realtà la uccide perchè ne svela l'inattualità, la perdita dell'aura che l'ha finora mantenuta in vita. E come ogni assassino che si rispetti, torna sempre sul luogo del delitto.
Può apparire un paradosso: è un pittore il killer della pittura.
10/05/2009